Una profonda amicizia tra un’anziana e una giovane aspirante giornalista, entrambe alla ricerca di se stesse, con una storia che si sviluppa, tra emozioni, ricordi e bugie. Scarlett Johansson ha fatto il suo esordio alla regia con il film Eleanor the Great, presentato quest’anno al Toronto Film Festival. Nel cast anche Chiwetel Ejiofor, che interpreta un famoso giornalista e scrittore.
Il film è stato co-prodotto da Trudie Styler, moglie di Sting, che, con la sua casa di produzione Maven Screen Media, fondata con Celine Rattray, ha sempre cercato di promuovere e supportare storie al femminile e registe emergenti. “Dirigere è stata una scelta naturale per me, dopo una lunga carriera e un amore profondo per il cinema. Sognavo questo momento fin da quando, a 11 anni, recitai ne L’uomo che sussurrava ai cavalli di Robert Redford.”
La protagonista di Eleanor The Great è June Squibb: com’è stato lavorare con lei?
Ci siamo trovate da subito bene. Ammiravo il suo lavoro e mi appassiona pensare come alla sua età continui a recitare tanto. È una donna davvero interessante e con tanta esperienza. La storia del film si sviluppa a New York, una città che amo, perché vi sono nata e cresciuta. June vi si trasferisce, per ricominciare una nuova vita, dopo la morte di una cara amica e per stare vicina alla sua famiglia. Ma, alla fine, si troverà coinvolta in una situazione che non prevedeva.
Il personaggio di Eleanor resta colpito dai racconti dei sopravvissuti all’Olocausto…
Si, volevo che queste storie fossero autentiche. Per questo ho collaborato con la Usc Shoah Foundation e ho scelto dei sopravvissuti all’Olocausto per narrare le loro esperienze.
È particolarmente vicina a questo tema, dato che alcuni suoi antenati sono stati tra le vittime…
Sono sempre stata legata alle mie nonne, che mi parlavano spesso di vicende che avevano ascoltato da parenti o amici. Il personaggio di Eleanor me la ricorda, al punto che sono convinta che in lei riscoprirete qualche similitudine con le vostre stesse nonne. Ho pianto quando ho letto la sceneggiatura, scritta da Tory Kamen, che ha anche lavorato alla produzione esecutiva con me.
Ha lavorato anche a un altro film sul tema: Jojo Rabbit di Taika Waititi…
È un’opera originale, con un lato oscuro ma anche una forte componente satirica. Racconta la storia di una madre e di suo figlio Jojo, un bambino di dieci anni che si avvicina al nazionalsocialismo e che finirà per legare con una ragazzina ebrea nascosta in soffitta. Jojo viene soprannominato Jojo Rabbit dai coetanei e dagli adulti perché, a differenza degli altri giovani della gioventù hitleriana, non riesce a essere crudele: segue la sua testa e, soprattutto, il suo cuore. Ho amato il ruolo di Rosie, sua madre single. Per me la memoria è fondamentale: non dobbiamo mai dimenticare ciò che è accaduto. Inoltre, Rosie mi ha ispirata come donna e come madre, con il suo amore incondizionato per il figlio, la sua resilienza e la capacità di trovare gioia nelle piccole cose, persino nei momenti più duri e drammatici.
Cosa le ha insegnato Robert Redford?
Mi ha insegnato a essere empatica nel mio lavoro, ad avvicinarmi agli altri e ai loro sentimenti senza paura, e ad avere il coraggio di osare sul set. Ho cercato di portare questi insegnamenti anche nella mia esperienza da regista, creando un gruppo in cui tutti si sentissero a proprio agio, liberi di collaborare ed esprimere la propria opinione. Bob — così si faceva chiamare Redford dagli amici — mi aveva consigliato di aspettare prima di dirigere, perché ci vuole esperienza. Ma allo stesso tempo mi ha sempre incoraggiata ad avvicinarmi al lavoro dietro la macchina da presa, perché vedeva quanto fossi sinceramente interessata a questo percorso.
Come lo ricorda come uomo?
Molto attento, paziente, generoso. E un vero perfezionista: pretendeva molto da sé e dagli altri. Con me fu sempre straordinariamente gentile. Mi scelse personalmente per quel ruolo, nonostante avessi meno esperienza di altre attrici. Interpretavo una ragazzina traumatizzata da un grave incidente a cavallo, e lui era il cowboy che ci aiutava a riconciliarci, a ritrovare noi stessi e a superare il dramma. In fondo, era un viaggio verso la vita, con i suoi alti e bassi. Anche quando era stanco morto, trovava sempre il tempo di sedersi con me per discutere le scene del giorno dopo. Devo a lui se ho intrapreso la carriera di attrice. Con lo stesso spirito e con la sua passione per il cinema ha fondato il Sundance Film Festival, per dare opportunità ai giovani registi e ai film indipendenti. Quest’anno si terrà per l’ultima volta a Park City, nello Utah, dal 22 gennaio al primo febbraio 2026, per poi trasferirsi a Boulder, in Colorado.
Qual è la sua visione come regista?
Voglio raccontare storie di donne, anche quelle invisibili, come accade in questo film. Spesso le donne anziane diventano davvero invisibili nella società, e per me era importante dar loro voce. Desidero che il pubblico possa elaborare una propria interpretazione della storia, senza essere guidato o influenzato da me. Per questo racconto in modo obiettivo, senza giudicare i personaggi né prendere posizione.
Lei è da tempo anche l’eroina Marvel Black Widow…
È stato il mio ex marito Ryan Reynolds ad aiutarmi a prepararmi fisicamente per vari ruoli, avvicinandomi agli allenamenti e agli sport necessari per i film d’azione. Quella preparazione mi è stata preziosa quando ho interpretato Natasha Romanoff, la super spia cresciuta fin da bambina per diventare un’assassina infallibile, che poi sceglie di lavorare per gli Stati Uniti. È stato un personaggio che mi ha stimolata su più livelli e che ha concluso la sua storia in modo eroico. Ora però sono pronta per nuove sfide.
Dal punto di vista imprenditoriale ha lanciato la linea di bellezza: The Outset…
Volevo una linea di prodotti sostenibili e naturali, che rispecchiasse le mie esigenze di madre. In realtà è stata mia figlia Rose a ispirarmi: lei e le sue compagne avevano già iniziato a truccarsi, e volevo che esistessero prodotti di cui potessi fidarmi. Ho scoperto che molte altre mamme la pensano come me. A mia figlia voglio insegnare a credere nei sogni. Una delle frasi che Bob Redford mi ripeteva spesso era: “Se vuoi che i tuoi sogni diventino realtà, devi crederci tu per prima”.
LEGGI ANCHE: Il cinema mi serve per raccontare eroi dimenticati e storie vere
L’articolo “Voglio raccontare storie di donne, anche di quelle invisibili” è tratto da Forbes Italia.