La 31ª edizione della Reserve Manager Survey di Ubs Asset Management, che raccoglie le opinioni di 40 banchieri centrali a livello mondiale, ha acceso i riflettori sui possibili effetti devastanti – tanto per gli Stati Uniti quanto per il resto del pianeta – delle politiche Maga (Make America Great Again) promosse da Trump.
Numerose sono le riserve espresse sulla capacità di queste politiche di sostenere la crescita degli Stati Uniti nel lungo periodo. Il 40% degli intervistati prevede un ritorno dell’inflazione con tassi compresi tra il 3% e il 4%, mentre l’80% stima che i tassi di riferimento della Federal Reserve (F.E.D.) si manterranno tra il 3% e il 4% nel giro di un anno.
La guerra dei dazi e i conflitti
La guerra dei dazi e i conflitti militari hanno spostato l’attenzione dei banchieri centrali dalle prospettive finanziarie dell’economia globale agli effetti destabilizzanti che la geopolitica può generare sull’equilibrio economico internazionale. Trump è riuscito a sconvolgere il paradigma di riferimento dei banchieri centrali, abituati a ragionare secondo criteri valutativi tradizionali.
Le principali preoccupazioni riguardano l’indebolimento del dollaro, dell’economia americana e di quella globale, oltre alla sostenibilità del debito pubblico statunitense. Il 47% degli intervistati considera possibile una futura ristrutturazione del debito USA, con conseguenze potenzialmente rovinose per l’intero sistema finanziario mondiale. Preoccupano, inoltre, i continui tentativi da parte del Presidente Trump di indebolire l’indipendenza della FED (secondo il 65% degli intervistati) e lo stesso Stato di diritto (per il 47%).
Queste inquietudini trovano riscontro nei dati più recenti. A giugno, l’indice dei prezzi al consumo ha registrato un aumento del 2,7% su base annua, rispetto al 2,4% del mese precedente. Lo spread tra il T-Bond statunitense e il Bund tedesco a 10 anni è passato da 134,40 punti base (17 luglio 2023) a 174,53 punti base (15 luglio 2025). I tassi d’interesse sui titoli pubblici USA sono saliti dal 4,31% al 4,95%.
La strategia dell’Europa
Le politiche economiche di Trump hanno provocato un vero e proprio cataclisma, sia per le previsioni legate all’equilibrio dell’economia americana, sia per quello dell’intero scenario globale. Eppure, paradossalmente, erano proprio gli Stati Uniti a beneficiare di quell’equilibrio.
A fronte di questo scossone, è lecito domandarsi cosa abbia spinto Trump a esasperare la strategia economica avviata nel 2017 con il suo primo mandato. La nuova fase del capitalismo politico cinese, oggi leader mondiale in settori strategici come l’intelligenza artificiale e le auto elettriche, con ogni probabilità ha spinto l’amministrazione americana a rilanciare la minaccia della guerra dei dazi, nel tentativo di riconquistare l’egemonia nel commercio internazionale tradizionale.
Una strategia, la cui fine non possiamo oggi prevedere, ma che è stata ingenuamente avallata dall’Europa attraverso due scelte gravi: l’aumento delle spese militari dell’Alleanza Atlantica per sostenere l’industria bellica statunitense; la decisione del G7 di esentare le multinazionali dalla Global Minimum Tax, lasciando che siano invece le imprese europee, giapponesi e di altri paesi a pagarla.
Il nodo delle tensioni commerciali Usa-Ue
Di fronte a questo sconvolgimento epocale, si auspica che le trattative in corso portino a un risultato accettabile, sul modello dell’accordo commerciale tra Stati Uniti e Regno Unito. Ma ci si dimentica che, per Washington, Londra è poco più della cinquantesima stella della bandiera americana.
Considerato che le trattative non stanno producendo risultati positivi, e poiché non vogliamo reagire con ritorsioni indiscriminate, la domanda è inevitabile: dobbiamo restare sull’albero a cantare aspettando che canti il gallo? Eh no!
Trump agita lo spauracchio del deficit commerciale con l’Unione Europea, attribuendolo a pratiche sleali da punire con la mannaia di dazi al 30% – una vera e propria panacea, a suo dire, per tutti i mali dell’economia americana.
Colpisce che, di fronte alle lettere minatorie inviate da Trump alla Presidente della Commissione Europea, in cui rivendica un disavanzo commerciale con l’UE pari a 236 miliardi di dollari nel 2024, Ursula von der Leyen non abbia replicato pubblicamente (coram populo) menzionando il surplus nei servizi, quantificato dal Consiglio Europeo in 148 miliardi di euro e ridotto, non senza malizia, a 76 miliardi di dollari dagli USA.
Parliamo di servizi professionali, scientifici e tecnici con un export stimato in circa 100 miliardi di dollari l’anno; della proprietà intellettuale (esclusi i servizi informativi) per quasi 50 miliardi; dei servizi finanziari e assicurativi per oltre 33 miliardi; e del turismo per circa 16 miliardi.
La sfida alle rivendicazioni sul deficit commerciale
La stima del Consiglio Europeo di un surplus nei servizi pari a 148 miliardi di euro (circa 171 miliardi di dollari al cambio 1,16) rispetto ai 236 miliardi di deficit commerciale porterebbe il disavanzo complessivo a soli 50/60 miliardi di dollari, circa il 3% dell’interscambio bilaterale.
Numeri che ci offrono la forza per contrastare efficacemente le rivendicazioni trumpiane sul deficit commerciale, che – com’è evidente – ignorano deliberatamente, a proprio vantaggio, l’ampio surplus nei servizi. È il saldo della bilancia dei pagamenti – e non quello della sola bilancia commerciale – a contare davvero. Le chiacchiere, come si suol dire, non fanno farina.
Guai a sottovalutare il peso dei servizi forniti e pagati dall’Europa agli Stati Uniti: non sono certo noccioline. Rappresentano da tempo, e sempre più, il motore strategico reale dell’economia americana, in pieno contrasto con il sogno trumpiano di una riscossa manifatturiera. Negoziare senza ricorrere a ritorsioni immediate può essere accettabile solo se si fa capire con estrema chiarezza a Trump che i danni provocati dalla guerra commerciale sono quisquilie rispetto a ciò che potrebbe accadere se venissero adottate contromisure equivalenti sull’export statunitense di servizi.
È il saldo della bilancia dei pagamenti il vero cuore delle trattative. Qualora tale saldo registrasse un segno negativo rilevante – ben più elevato degli attuali 50 miliardi di dollari – ne risentirebbe inevitabilmente la solidità del debito pubblico americano. E proprio questo darebbe piena concretezza alle preoccupazioni emerse nella 31ª edizione dell’indagine UBS: che in futuro si debba affrontare una ristrutturazione del debito Usa.
L’articolo Trump, dazi e deficit: cosa c’è dietro le tensioni commerciali tra Stati Uniti e Europa è tratto da Forbes Italia.