17 Luglio 2025

Quanto vale la filiera agroalimentare italiana: 600 miliardi e 4 milioni di occupati

Articolo tratto dal numero di luglio 2025 di Forbes Italia. Abbonati!

di Maria Carmela Ostillio, associate professor of practice Sda Bocconi e Sandro Castaldo, full professor Università Bocconi

Quando analizziamo il made in Italy nel food è fondamentale comprendere la filiera agroalimentare nel suo complesso, i suoi prodotti e servizi. I prodotti sono quelli tipici della dieta mediterranea, riconosciuta dell’Unesco nel 2010 quale patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Sono fortemente legati all’italianità e ai metodi di preparazione e costituiscono una quota rilevante dell’esportazione del settore.

I servizi sono, in particolare, quelli erogati dagli attori della catena del valore che raggiunge il consumatore, quali distributori e ristoratori. Molti di questi hanno puntato sulla qualità – si pensi al cosiddetto farm-to-table offerto da alcuni ristoranti stellati – e hanno avviato un processo di natura etico-relazionale, a partire proprio dal mondo dell’agricoltura e della filiera a valle. Ad esempio, alcune catene dalla grande distribuzione, insieme ad altre organizzazioni come Associazione Distribuzione Moderna e FerderDistribuzione, hanno siglato fin dal 2017 accordi di filiera per favorire pratiche commerciali leali in tutti gli stadi del canale distributivo e promuovere la correttezza delle relazioni fra agricoltura, industria e distribuzione.

La filiera agroalimentare

I dati della Coldiretti fotografano una filiera agroalimentare che offre lavoro a oltre quattro milioni di persone, distribuiti in 740mila aziende agricole. A queste si aggiungono le 70mila industrie alimentari, le oltre 330mila realtà della ristorazione e i 230mila punti vendita al dettaglio.

La struttura della filiera agroalimentare conferma come il ‘sistema Italia’ sia costituito prevalentemente da imprese di piccole e medie dimensioni (pmi), caratterizzate da una forte specializzazione. Le aziende, in genere, sono concentrate in specifici territori e sono caratterizzate da una comune matrice storica, sociale, economica e culturale.

I sistemi produttivi, fortemente integrati su base locale, prendono la forma di distretti industriali, a conferma dell’attenzione alla cura e alla valorizzazione di qualità e varietà della proposta italiana in tutto il Paese. I distretti sono divenuti, nel tempo, fondamentali aggregatori di conoscenze, capacità, competenze, abilità e specializzazioni, come definito da Becattini, uno dei principali studiosi in questo campo. A evidenza della rilevanza del fenomeno riferito alla filiera agroalimentare, oggi in Italia sono presenti 196 Distretti del cibo, distribuiti su tutto il territorio. Sono riconosciuti e iscritti nel registro dedicato, istituito presso il ministero delle Politiche agricole e forestali.

Nonostante le difficoltà globali, con crescenti turbolenze geopolitiche ed economiche, aggravate dai conflitti in Europa e nel Mediterraneo e dalle guerre commerciali, la filiera ha generato oltre 600 miliardi di euro, confermandosi uno dei settori trainanti per il Paese, non solo per il peso nel sistema produttivo e nelle esportazioni, ma per il contributo che assicura al posizionamento del made in Italy nel mondo.

L’export

Tra i principali mercati di sbocco delle esportazioni agroalimentari italiane, con diversa rilevanza e diversi rischi, c’è in primis l’Europa. L’Unione europea ha un peso relativo del 57%, che, con i paesi extra-Ue come Regno Unito e Svizzera, raggiunge circa il 70%. Seguono gli Stati Uniti, con un valore di 7,8 miliardi di euro e un peso dell’11,3%. Quest’area è oggi quella a maggiore rischio, per la minaccia dei dazi e delle restrizioni degli scambi.

Secondo l’Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare (Ismea), il valore aggiunto dell’agricoltura italiana (il settore a monte della filiera) è stato di 40,4 miliardi, pari al 2% del Pil. L’agricoltura produce oltre la metà del valore complessivo dell’industria agroalimentare in senso stretto, pari a 77,2 miliardi (3,7% del Pil); includendo, poi, la distribuzione e la ristorazione, il valore dell’agroalimentare sale al 7,7%, e considerando anche logistica, trasporto e intermediazione si supera il 15% (secondo il rapporto Agricoltura 100, Quinta edizione, 2025).

La bilancia commerciale evidenzia come le esportazioni del settore, nel 2024, abbiano raggiunto un valore di 69 miliardi di euro, in crescita del 7,5% sull’anno precedente, con una contribuzione sulle esportazioni totali del Paese pari all’11,3%. Al contempo, si evince che l’Italia è importatore di beni primari nell’agroalimentare, con un saldo agricolo in passivo per 13 miliardi, ed esportatore di beni trasformati, con un saldo positivo della componente industriale di 14,2 miliardi.

La catena del valore

Tali dati, se da un lato confermano il nostro Paese quale importante produttore nell’agrifood, ne evidenziano, dall’altro, il ruolo di trasformatore alimentare all’interno della catena del valore. Un ruolo attestato anche dalla presenza di molti produttori e trasformatori della filiera che, attraverso selezione, controllo, lavorazioni e distribuzione di prodotti, sono in grado di conferire qualità e valore alle produzioni made in Italy.

Osservando la composizione delle esportazioni e della bilancia commerciale relativamente ai diversi comparti produttivi della filiera nazionale (figura 3), appare evidente lo sbilanciamento tra export e import per alcuni prodotti, tra cui vino e pasta (derivati dai cereali), che rappresentano i principali comparti dediti all’esportazione, insieme a formaggi e latticini, prodotti dolciari e ortofrutticoli trasformati, acque minerali e altri. Tali prodotti riportano ai concetti di tipicità, specialità e dieta mediterranea, attestando il valore delle produzioni di qualità del Paese. L’Italia, per contro, risulta importatore di alcuni beni primari (le materie prime agricole), tra cui pesce, carne e cereali sono i più rilevanti.

La forza della filiera risiede nelle capacità e nelle competenze di trasformazione, anche con prodotti agricoli importati, purché inseriti in distretti ed ecosistemi in cui gli attori, con ruoli e saperi diversi, si integrano e formano la filiera, in grado di valorizzare, sostenere, preservare e manutenere i fattori determinanti per l’attrattività e l’immagine del made in Italy nel food. Tra questi, alcuni svolgono il ruolo di driver per il food.

La qualità come driver

Innanzitutto la qualità. È un driver che può divenire operativo sia con la definizione dei requisiti che definiscono i prodotti made in Italy, assicurandone autenticità ed eccellenza, sia tramite controlli di qualità e sicurezza. Questi possono essere garantiti da normative nazionali ed europee, nonché selezionando e garantendo l’origine dei materiali.

Un prodotto del made in Italy dovrà realizzarsi con materie prime di alta qualità, che non siano necessariamente provenienti dal territorio italiano, ma di certo sottoposte a controlli accurati. Infine, sono proprio le certificazioni di qualità dei prodotti made in Italy attraverso le denominazioni di origine, come Dop (Denominazione di origine protetta), Igp (Indicazione geografica protetta) e Stg (Specialità tradizionale garantita), che attestano qualità, autenticità e provenienza del prodotto.

L’Italia è il primo paese al mondo per prodotti a denominazione protetta, più di 850. I prodotti Ig (Dop, Igp, Stg) costituiscono il 27,5% dei prodotti certificati europei, generando 20 miliardi di produzione e 11,6 miliardi di esportazioni, con una crescita costante.

La produzione artigianale

Metodi di produzione tradizionali e artigianalità, che vanno difesi ma, non per questo, essere tacciati di antichità e/o non-innovatività. La produzione made in Italy spesso segue metodi tradizionali, tramandati di generazione in generazione. Per esempio, la colatura delle alici di Cetara è ancora oggi lavorata a mano da artigiani che seguono tecniche antiche.

La tradizione non deve però precludere la ricerca di innovazione in una o più fasi del processo o nella catena del valore di filiera. A ciò si unisce l’artigianalità con cui vengono realizzati i prodotti e i servizi, in cui ogni fase è curata nei minimi dettagli, dalla selezione delle materie prime alla lavorazione, tipicamente manuale. Questa conferisce all’offerta un valore di artigianalità e unicità molto richiesto dal mercato e che ben si integra con i servizi locali e territoriali connessi al turismo eco-gastronomico.

L’ambiente

Rispetto dell’ambiente e del benessere animale e tutela della biodiversità. Molte aziende agricole nascono e sono da subito sostenibili, adottano pratiche agricole biologiche e sostenibili per preservare il territorio e la biodiversità. Elemento che costituisce un tesoro nazionale e che si manifesta sotto diverse forme: ad esempio, abbiamo più di settemila specie vegetali edibili (siamo i primi al mondo). Il secondo paese è il Brasile, con 3.300.

Qualsiasi regione Italiana ha più specie vegetali di ogni singolo stato europeo. Abbiamo 58mila specie animali: il secondo paese al mondo ne ha 20mila. Deteniamo 1.200 vitigni autoctoni, mentre la Francia, che è seconda, ne ha 222 (meno del 20%). Possediamo 533 cultivar di olive, quando la Spagna ne ha 70. Abbiamo 140 cultivar di grano duro, contro i sei degli Stati Uniti, malgrado la differenza di dimensione. Un simile patrimonio nazionale va protetto e valorizzato.

Affinché la filiera agroalimentare prosegua nel suo sviluppo e faccia crescere un sistema con tanti interlocutori, dovrà guidare l’approccio del made in Italy nel food attraverso la valorizzazione e la difesa dei driver: massima qualità, tradizione e artigianalità, sostenibilità e biodiversità. Un’area su cui bisogna crescere per il futuro è quella delle competenze di go to market, sviluppando la capacità di portare sui mercati finali elementi e valori distintivi, per trasformarli in un vantaggio competitivo per un business più remunerativo e con market share più consistenti.

L’articolo Quanto vale la filiera agroalimentare italiana: 600 miliardi e 4 milioni di occupati è tratto da Forbes Italia.