L’approvazione del ‘Big Beautiful Bill’ da parte del Congresso americano ha consolidato il dominio di Donald Trump su entrambi i rami del Parlamento e rappresenta un duro colpo alla qualità della vita per milioni di cittadini. I malumori iniziali di alcuni deputati e senatori repubblicani si sono dissolti nel volgere di poche ore. Forte della sua presa ferrea sul partito e del sostegno del populismo di destra, Trump ha imposto la sua linea, riducendo al silenzio ogni possibile dissenso.
Inutili si sono rivelati i tentativi di ostruzionismo da parte di alcuni deputati democratici, che hanno condotto una maratona parlamentare fino all’alba nel tentativo, vano, di impedire l’approvazione di un voto procedurale che ha poi permesso alla legge di arrivare in aula.
I numeri del Big Beautiful Bill
Contrariamente all’enfasi celebrativa del capogruppo repubblicano alla Camera, Steve Scalise, che ha definito il provvedimento come il preludio a una “nuova epoca d’oro per l’America”, il Big Beautiful Bill – 900 pagine fitte di misure regressive – provocherà un aumento del debito pubblico stimato in 3.400 miliardi di dollari nel prossimo decennio, secondo il Congressional Budget Office. Le ripercussioni sul rapporto debito/Pil (già al 121% nel 2024) e sul valore del dollaro, in costante discesa rispetto all’euro (1,18 Usd) e alle principali valute internazionali, sono ancora tutte da valutare.
Con questa legge si taglia il cordone ombelicale che lega l’America alla propria storia sociale: prima con il New Deal rooseveltiano, che ha segnato quattro decenni di intervento pubblico a favore dei più deboli, poi con il neoliberismo, che, pur nell’esaltazione del mercato, non aveva ancora minato radicalmente la coesione sociale. Ora, invece, si premia apertamente la ricchezza, comprimendo i diritti fondamentali e favorendo una redistribuzione al contrario.
Donald Trump e la redistribuzione al contrario
La profonda iniquità del Big Beautiful Bill emerge chiaramente da alcuni punti cardine:
Tagli alla sanità: l’esclusione di circa 12 milioni di persone dall’assicurazione sanitaria, con l’estromissione di molti dal programma Medicaid.
Regalie fiscali permanenti: aliquote ridotte per persone fisiche e imprese, agevolazioni per mance, straordinari e interessi passivi sull’acquisto di auto prodotte negli Usa, con un minore gettito stimato in 4.500 miliardi di dollari in dieci anni.
Cancellazione dell’Inflation Reduction Act: vengono eliminati gli incentivi climatici dell’amministrazione Biden, affossando gli impegni dell’Accordo di Parigi e incentivando nuove trivellazioni petrolifere e di gas nel Golfo del Messico, in Alaska e su altri territori federali.
Stretta sull’immigrazione: aumento dei costi e delle tasse, espansione della capacità detentiva per l’applicazione delle norme anti-immigrazione.
Questa manovra favorisce i più ricchi e penalizza le fasce più deboli, rompendo con il modello sociale che, pur tra contraddizioni, aveva garantito agli americani un certo equilibrio economico e civile. È altresì in aperto contrasto con gli obiettivi perseguiti dall’Unione europea, che – almeno a parole – continua a difendere una transizione verde e una maggiore equità sociale, anche a fronte delle nuove spese militari.
Lo smantellamento della tutela ambientale
Tra gli aspetti più inquietanti della rivoluzione imposta dal Big Beautiful Bill vi è lo smantellamento sistematico delle politiche ambientali. Le trivellazioni petrolifere e l’uso indiscriminato di fonti fossili vengono rilanciati senza freni, in un’ottica di corto respiro che ignora i segnali allarmanti provenienti dal mondo produttivo.
A tal proposito, un recente report di Morgan Stanley (Sustainable Signals Corporates 2025) evidenzia che il 57% delle imprese globali ha subito danni operativi nell’ultimo anno a causa di fenomeni climatici estremi, come ondate di calore e tempeste. Nella regione Asia-Pacifico, la percentuale sale al 73%; in Europa si attesta al 46%. La più bassa, ma comunque significativa. Qui la preoccupazione principale è la siccità e la scarsità d’acqua.
Nei prossimi cinque anni, oltre due terzi delle imprese (soprattutto nordamericane) temono che i cambiamenti climatici impatteranno su domanda, costi, investimenti e rapporti con gli stakeholder. La sostenibilità è vista come un’opportunità, ma solo se accompagnata da strategie statali adeguate a mitigare la crescente vulnerabilità del pianeta.
La spaccatura dell’Occidente
I due aspetti analizzati – disuguaglianze sociali e crisi climatica – pongono una questione di fondo: ha ancora senso parlare dell’Occidente come di un’entità compatta?
Il cemento dell’Occidente non è stato solo l’Alleanza Atlantica contro l’Unione Sovietica durante e dopo la Guerra Fredda. È stata soprattutto una visione condivisa del vivere civile, dei diritti, dell’equilibrio tra libertà individuale e giustizia sociale. Un’identità plurale, ma coesa, che ha retto finché non ha prevalso la logica del ‘noi contro loro’.
La guerra dei dazi avviata da Trump ha già reso difficile una composizione degli interessi economici. Ma ciò che rischia di diventare insanabile è la divergenza culturale sul ruolo dello stato, sulla solidarietà sociale, sulla tutela dell’ambiente. Se le politiche pubbliche servono ad accentuare le disuguaglianze, a ignorare la crisi climatica e a sfruttare in modo predatorio le risorse del pianeta, allora davvero nulla sarà più come prima.
E la domanda diventa inevitabile: ha ancora senso parlare dell’Occidente come di un blocco coeso, quando le distanze tra l’America di Trump e l’Europa si fanno tanto profonde? Quando le divergenze sono così abissali, nemmeno il nocciolo si può salvare. E forse è giunto il momento di riconoscere che l’Occidente, così come lo conoscevamo, non ha più un futuro comune.
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L’articolo Perché il Big Beautiful Bill di Trump certifica la frattura dell’Occidente è tratto da Forbes Italia.