21 Luglio 2025

Mancati investimenti sugli stadi, conti in rosso, infiltrazioni mafiose: così il calcio italiano sta implodendo

Contenuto tratto dal numero di luglio 2025 di Forbes Italia. Abbonati!
A cura di Andrea Bellavia

La notte di Oslo, con l’Italia travolta per 3-0 dalla Norvegia e il Mondiale del 2026 appeso a un filo, ha segnato l’ennesimo punto di caduta per il calcio italiano. L’esonero del commissario tecnico Luciano Spalletti, con annesse polemiche e veleni, è soltanto la superficie di un problema ben più profondo. La crisi della Nazionale è lo specchio fedele di un sistema calcistico che da anni fatica a riformarsi, zavorrato da problemi strutturali, finanziari e culturali.

La stagione 2024 ha restituito un’immagine a tinte fosche del pallone italiano, non solo per le inchieste della magistratura che hanno certificato infiltrazioni della criminalità organizzata nelle curve di Inter e Milan ed evidenziato la tendenza di molti calciatori, anche del giro della Nazionale, a giocare d’azzardo su piattaforme illegali, con situazioni- si pensi ai casi di Tonali e Fagioli– di vera e propria ludopatia.

La Serie A, quello che una volta era ‘il campionato più bello del mondo’, è ormai da anni la quarta lega a livello europeo, staccatissima in termini di ricavi dalla ricca Premier League inglese e costretta a rincorrere anche la Liga spagnola e la Bundesliga tedesca.
E le prospettive per il futuro non sembrano rosee. L’ultimo campionato, vinto dal Napoli di Aurelio de Laurentiis e Antonio Conte, si è chiuso con un calo degli ascolti del 6,9% su Dazn, la piattaforma a pagamento di sport in streaming da cui arriva il grosso dei ricavi del sistema.

Un dato che preoccupa i club e che sta alimentando i timori su una possibile retromarcia della stessa Dazn, che in Francia ha già abbandonato la Ligue 1 per gli stessi motivi. I 700 milioni di euro annui pattuiti da Dazn per i diritti televisivi della Serie A rischiano di non essere più sostenibili per il gruppo del magnate Len Blavatnik, soprattutto in un contesto in cui la pirateria continua a erodere valore al prodotto. Nonostante l’inasprimento delle normative e l’introduzione di strumenti come il Piracy Shield, la pirateria audiovisiva continua a rappresentare una minaccia per la sostenibilità del sistema. La difficoltà di intervenire in tempo reale e la diffusione delle tecnologie peer-to-peer rendono complesso il contrasto a un fenomeno che erode i ricavi delle emittenti e, di riflesso, quelli dei club.

“Se non riusciamo a bloccare questa emorragia, difficilmente avremo la possibilità di reperire le risorse che sostengono il nostro sistema”, ha ammonito nel corso del Festival della Serie A, il ceo della Lega calcio, Luigi De Siervo.

Il nodo degli stadi

Un altro nodo strutturale è quello degli impianti sportivi. L’età media degli stadi italiani è di 69 anni, il doppio rispetto a Germania e Inghilterra. La candidatura congiunta con la Turchia per Euro 2032 ha riacceso l’attenzione sul tema, ma lo stesso presidente della Figc, Gabriele Gravina, ha ammesso che l’Italia è in ritardo. In 15 anni sono stati realizzati appena cinque nuovi stadi, a fronte di oltre 200 nel resto d’Europa.

Le procedure burocratiche, i vincoli architettonici, gli atteggiamenti ambigui della politica locale, hanno frenato ogni tentativo di modernizzazione diffusa, complicando i piani non solo delle proprietà italiane ma anche di quegli investitori internazionali che negli ultimi anni hanno immesso nel sistema calcio oltre 2 miliardi di euro, solo per rilevare le proprietà di club. E che si dicono pronti a mobilitare ulteriori risorse per procedere alla riqualificazione dell’impiantistica.

Prendendo come campione i 20 club che hanno partecipato all’ultima Serie A, sono 14 i progetti di costruzione o rinnovamento degli stadi. Parliamo di un investimento complessivo di 4,4 miliardi di euro, che potrebbero generare nel breve termine circa 24mila posti di lavoro.

Il governo è pronto a intervenire attraverso un disegno di legge delega destinato a ridisegnare radicalmente il quadro normativo relativo agli impianti sportivi professionistici, favorendo la realizzazione di nuovi stadi, come nei casi del nuovo San Siro a Milano o dell’impianto di Pietralata a Roma, e l’ammodernamento di quelli esistenti (il Maradona a Napoli, Marassi a Genova e il Flaminio nella capitale), mediante la semplificazione delle procedure amministrative, l’estensione delle forme di partenariato pubblico-privato per agevolare il reperimento di capitali e a misure di defiscalizzazione.

Il provvedimento, cui ha lavorato il ministro per lo Sport, Andrea Abodi, d’intesa con il titolare del Mef, Giancarlo Giorgetti, dovrebbe inoltre portare alla nomina di un commissario governativo per gli stadi e di 11 subcommissari, che potrebbero essere i sindaci di altrettante città coinvolte in progetti di costruzione di nuovi impianti o di ammodernamento degli esistenti.
Basterà a vincere le resistenze di coloro che vivono nei quartieri interessati dai futuri cantieri? In base a un sondaggio commissionato da

Banca Ifis e pubblicato a giugno, oltre l’80% degli italiani si dice favorevole alla costruzione o alla ristrutturazione degli stadi, indicando in un maggiore comfort e in una maggiore sicurezza le ragioni del proprio sostegno. Ma le logiche dei ricorsi al Tar, in ossequio al principio del ‘not in my backyard’, e la propensione delle amministrazioni locali, anche per ragioni di consenso elettorale, a tenere in considerazione le posizioni dei comitati di quartiere potrebbero scompaginare nuovamente i piani.

La gestione dei diritti televisivi

Gli stadi non sono l’unico tema su cui il governo punta a intervenire. Nel mirino dell’esecutivo è finito anche il sistema di gestione dei diritti audiovisivi. Il provvedimento studiato dai tecnici del ministro Abodi punta a un radicale superamento della cosiddetta Legge Melandri, la norma del 2008 che regola le modalità di commercializzazione e i criteri di ripartizione dei diritti audiovisivi dei campionati di calcio professionistici. La riforma punta in primo luogo a superare la regola, attualmente in vigore, del ‘no single buyer’, che non consente la vendita in esclusiva a un solo operatore di tutti i diritti di un campionato professionistico.

Una mossa che, se il mercato dei diritti fosse in ascesa, potrebbe anche avere ripercussioni positive sulle casse dei club. Il problema, fanno notare gli addetti ai lavori, è che l’aumento dell’offerta di eventi calcistici, dalla nuova Champions League al Mondiale per Club, sta erodendo quote di mercato ai campionati nazionali. Difficile, dunque, ipotizzare che nei prossimi anni il mercato domestico dei diritti audiovisivi possa tornare a crescere.

Questo aiuta a capire la presa di posizione del presidente della Serie A, Ezio Simonelli, contro la riforma e in particolare contro i nuovi criteri di ripartizione di ricavi da diritti tv. Il provvedimento dell’esecutivo porterebbe infatti a una “più equa ripartizione” rispetto al meccanismo attuale che destina una fetta rilevante della torta dei diritti ai club con un maggiore bacino d’utenza. Non solo: la riforma, oltre a confermare il meccanismo della mutualità, in base al quale la Serie A è tenuta a destinare parte dei propri proventi alle leghe inferiori, punterebbe a introdurre una “mutualità di sistema”, finalizzata a finanziare lo sport italiano nel suo complesso.

“La Lega Serie A”, ha detto Simonelli, eletto lo scorso autunno grazie al voto determinante di Juventus, Inter, Milan e Roma, “evidenzia la propria netta opposizione a qualsiasi forma di incremento della mutualità esterna che vada a sottrarre ulteriori risorse fondamentali allo sviluppo e alla sostenibilità della Serie A, la quale già peraltro contribuisce al sostegno delle categorie inferiori nella misura del 10% dei diritti audiovisivi”.

La fragilità economica del calcio italiano

La fragilità economica resta il tratto dominante del calcio professionistico italiano. Secondo un’analisi sugli ultimi bilanci disponibili, di Calcio e Finanza, testata online specializzata, nella stagione 2023/24 i ricavi aggregati della Serie A sono cresciuti fino a 3,79 miliardi, in aumento rispetto ai 3,55 miliardi del 2022/23, ma anche rispetto ai 3,41 miliardi della stagione 2018/19, l’ultima prima della pandemia. Ciononostante i conti del massimo campionato italiano evidenziano ancora una perdita di circa 370 milioni, sebbene in calo rispetto ai 441 milioni della stagione precedente.

Un miglioramento legato prevalentemente alle plusvalenze da calciomercato, passate dai 694 milioni della stagione 2022/23 ai 780 2023/24, che hanno aiutato a compensare a livello contabile la crescita dei costi, passati da 3,81 miliardi a 3,98 miliardi, in particolare per l’aumento degli stipendi di calciatori e allenatori, degli ammortamenti dei cartellini dei calciatori e per le spese relative ad agenti e procuratori.

Secondo le rilevazioni della Figc, nell’anno solare 2024 le commissioni riconosciute dai club di Serie A agli agenti sono state oltre 226 milioni, in crescita dai 220 del 2023.

In Serie B la situazione è altrettanto critica: nella stagione 2023/24 i ricavi hanno sfiorato i 473 milioni, ma i costi hanno superato i 792, per una perdita netta superiore ai 274 milioni, mitigata solo da poste straordinarie. Situazione ben fotografata dal presidente delle Lega Serie B, Paolo Bedin: “Dobbiamo porci l’obiettivo di arrivare a un sistema più sostenibile, perché qui è a rischio la continuità di questo settore. Il nostro è un settore industriale in disequilibrio, i nostri imprenditori sono da applaudire perché danno la possibilità ai tifosi di avere una squadra e un’identità che rappresenta i territori”.

I flussi di cassa e il caso del Brescia

Ma se il conto economico del calcio italiano piange, è sul fronte della cassa che emergono le criticità più gravi. Secondo uno studio condotto da Banca Ifis, le difficoltà di cassa non risparmiano nessun livello. Anzi, sono comuni a quasi tutte le società, anche a quelle di primissima fascia che partecipano alle coppe europee. La struttura dei flussi finanziari mostra un quadro preoccupante: solo pochi club generano un cash flow operativo positivo sufficiente a coprire le uscite.

Le spese per il calciomercato e per gli ingaggi di atleti e tecnici, pur variando in intensità tra i club e le categorie, assorbono una quota rilevante delle risorse disponibili. Proprio per questo la maggior parte dei club ha bisogno di integrare la cassa facendo ricorso alle risorse degli azionisti o utilizzando mezzi di terzi, come debiti finanziari e anticipazioni su crediti, ma anche ricorrendo a pratiche spesso al limite della legalità.

Il caso del Brescia di Massimo Cellino, finito in default a inizio giugno, è emblematico. Una vicenda complessa e dolorosa che ha visto il club lombardo, con 114 anni di storia alle spalle, passare, nel giro di poche settimane, dalla salvezza conquistata sul campo in Serie B al fallimento, tra penalizzazioni, accuse, mancati pagamenti e tensioni con le istituzioni calcistiche.

Una vicenda legata proprio alla difficoltà del club a trovare le risorse per finanziare la gestione corrente. A fine maggio 2025, a campionato di Serie B ormai concluso, il Tribunale federale della Figc ha inflitto al club una penalizzazione di otto punti per l’utilizzo di crediti d’imposta inesistenti nei versamenti fiscali di febbraio e aprile. Una sanzione che ha condannato il Brescia alla retrocessione diretta in Serie C, cambiando anche il quadro dei playout e consentendo così alla Sampdoria di giocarsi e ottenere la salvezza contro la Salernitana.

Secondo quanto dichiarato da Cellino, la responsabilità sarebbe da imputare al commercialista di fiducia, che avrebbe suggerito l’utilizzo dei crediti fiscali tramite un’operazione di compravendita con il Gruppo Alfieri, una finanziaria con referenze che si sono rilevate fasulle, a cominciare dalle attestazioni di Banca d’Italia e dalla presunta sede legale in via Monte Napoleone a Milano.

Di lì al fallimento il passo è stato breve. Il 6 giugno il Brescia non ha onorato il termine per il pagamento degli stipendi e dei contributi, necessari per ottenere l’iscrizione a un campionato professionistico nella prossima stagione. Il club dovrà ora ripartire dai dilettanti, ma le autorità e le istituzioni locali sono già al lavoro per capire come garantire al club almeno un futuro in Serie C.

Gli altri fallimenti

Il caso del Brescia non è un’eccezione. Anche la Spal, storico club con un recente passato anche in Serie A e attualmente di proprietà dell’avvocato americano Joe Tacopina (in passato azionista di Roma, Bologna, Catania e Venezia), non ha trovato le risorse per iscriversi al prossimo campionato di Serie C. Stessa sorte per la Lucchese, anch’essa nella terza divisione del calcio italiano nel corso dell’ultima stagione, e dichiarata fallita a fine maggio. È accaduto lo stesso alla Turris. La società di Torre del Greco è stata esclusa dal campionato di Serie C già a marzo dopo una lunga serie di inadempienze amministrative e finanziarie che l’hanno portata al collasso.

Se si allarga la prospettiva il dato è ancora più preoccupante: dal 2000 al 2024 sono fallite 185 società calcistiche italiane, tra cui il Parma in Serie A nel 2015 e sempre a stagione in corso. Un’emorragia.

Alla base c’è un problema di controlli: i requisiti economico-finanziari per l’iscrizione ai campionati vengono verificati a luglio, ma non bastano a garantire la sostenibilità lungo l’intera stagione. Per questo motivo la Figc ha introdotto nei mesi scorsi nuove regole: garanzie fideiussorie più elevate (700mila euro per la Serie C), obbligo di copertura dei debiti futuri in caso di acquisizione e un indicatore di liquidità minimo più stringente che in passato. Misure necessarie, ma tardive: il caos della stagione 2024/25 è avvenuto prima della loro piena applicazione.

Il problema culturale

Il vero nodo sembra essere culturale. Nel calcio italiano, la rincorsa al risultato sportivo prevale su qualsiasi altra logica. I club spendono più di quanto possano permettersi per conquistare promozioni o evitare retrocessioni. La cultura del pareggio di bilancio resta minoritaria, mentre il sistema si regge su fideiussioni, deroghe e ricorsi. In un contesto simile, parlare di industria del calcio è quasi un ossimoro. Finché il risultato immediato continuerà a prevalere sulla sostenibilità, i problemi non potranno che riproporsi ciclicamente.

La riforma della Figc rappresenta un passo nella direzione giusta, ma da sola non può bastare. Serve una governance condivisa, una visione strategica che metta al centro l’equilibrio economico-finanziario e valorizzi i club virtuosi. Serve premiare chi investe in stadi, in settori giovanili, in managerialità. Serve, soprattutto, spezzare il meccanismo che porta a decidere i campionati a colpi di ricorsi e penalizzazioni.

Il caso Brescia è solo l’ultimo campanello d’allarme. Se il calcio italiano vuole tornare competitivo, deve liberarsi dalla logica dell’emergenza permanente e adottare un modello industriale che guardi al lungo periodo. Perché senza regole certe, impianti moderni e conti in ordine, non ci sarà futuro. Né per la Nazionale, né per i club.

L’articolo Mancati investimenti sugli stadi, conti in rosso, infiltrazioni mafiose: così il calcio italiano sta implodendo è tratto da Forbes Italia.