Articolo tratto dal numero di luglio 2025 di Forbes Italia. Abbonati!
Massimo Bottura ha il principale merito di aver cambiato la visione del cuoco e della cucina negli ultimi 30 anni, sin da quando ha aperto, il 19 marzo 1995, le porte della sua Osteria Francescana, a Modena. Irriverente, colto, intellettuale e – pochi lo sanno, ma molti lo possono intuire – fine gourmet con un palato da critico gastronomico, ha sempre fatto della narrativa attorno al piatto la sua cifra stilistica. Non si è mai fermato a ciò che, seppur eccelso e a tratti geniale, ha messo nel piatto. La sua cultura è sconfinata, il suo amore e la sua competenza per l’arte contemporanea sono conosciuti da tutti, ma ciò che non si sa, o per lo meno si sa poco, è che il suo incredibile talento e la sua grandissima curiosità, unita a una grande dose di determinazione ed energia umana, lo ha portato a scalare tutte le vette, non solo nel mondo della ristorazione.
Citando velocemente tutti i riconoscimenti culinari ricevuti – primo tra i grandi cuochi d’Italia e nel mondo per le più importanti guide gastronomiche e vincitore della classifica World’s 50 Best Restaurants per due volte – è oggi considerato, a ragion veduta, uno degli uomini più influenti del pianeta. Gli è stato appena assegnato dal governo il titolo di ambasciatore della cucina italiana ed è stato nominato dal segretario generale dell’Onu Antonio Guterres tra i nuovi ‘Sdg advocate’ delle Nazioni Unite, ovvero gli ambasciatori mondiali degli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030. Un fardello pesante, ma che Bottura, con la sua intelligente ironia e il suo fare da scanzonato modenese, porta con grande disinvoltura.
Lei è stato tra i primi ad avvicinare la figura del cuoco a quella del maître à penser. Il pensiero e la cultura, ma soprattutto l’arte, sono fattori dominanti nel suo percorso.
Essere cuoco oggi significa anche essere narratore, pensatore, artigiano e artista. Non perché voglia allontanarmi dal mestiere, ma perché voglio onorarlo. La cucina è cultura. E un cuoco che pensa, che si interroga, che si apre al mondo, non tradisce la sua professione: la arricchisce. In fondo, cucinare è un gesto d’amore. E l’amore, per essere vero, ha bisogno di profondità. Di pensiero. Di cultura, di futuro.
A coloro che dicono che un cuoco deve stare solo in cucina e deve solo cucinare, che cosa risponde?
Rispondo che forse non ha mai davvero incontrato un piatto che racconti una storia. Per me, cucinare non è solo tecnica: è un atto creativo, emotivo, spirituale. È un linguaggio. E come ogni linguaggio, ha bisogno di ispirazione, di esperienze, di contaminazioni. La musica, l’arte, la letteratura – sono parte di me tanto quanto i coltelli, le padelle e le materie prime. Quando compongo un piatto, lo faccio come si compone un brano musicale o come si dipinge una tela: ascolto un’intuizione, seguo un ritmo interiore, cerco un’armonia tra sapori, colori, forme. Ogni ingrediente ha una voce, ogni preparazione una storia. E per raccontarla, non posso rinchiudermi in una cucina, isolato: devo vivere, osservare, studiare, lasciarmi ispirare dal mondo, dalla bellezza, dal dolore, dalla memoria.
È determinante per un cuoco essere dotato di una grande palato?
Il palato è il nostro strumento più prezioso. È come l’orecchio assoluto per un musicista, o l’occhio per un pittore: una dote che non si vede, ma che guida ogni scelta, ogni intuizione, ogni creazione. E sì, è determinante. Perché tutto parte da lì. Il palato è la bussola. È lui che decide se un piatto è solo buono, o se è necessario. Se emoziona. Se resta. Io continuo a ripeterlo perché l’ho vissuto sulla mia pelle: puoi imparare le tecniche, puoi padroneggiare la materia, ma se non hai un palato allenato, consapevole, sensibile, non stai davvero cucinando. Stai solo ripetendo dei gesti.
È una qualità che si impara o si allena?
Certo non basta avere un palato, bisogna saperlo ascoltare. Bisogna educarlo, proteggerlo, rispettarlo. Io credo che un palato sensibile sia in parte un dono – una predisposizione naturale, come una pelle più sottile capace di percepire ogni sfumatura – , ma sia soprattutto il frutto di anni, decenni, di assaggi, di errori, di confronti. È un percorso di vita, non una tecnica. Il talento da solo non basta: servono disciplina, memoria, curiosità. Serve il coraggio di tornare mille volte sullo stesso sapore per capirlo davvero.
Come si accorge se qualcuno ce l’ha?
Riconoscere un grande palato è come riconoscere un’anima che ascolta il cibo. Lo vedi da come una persona reagisce a un dettaglio nascosto, da come distingue una nota acida sottile in mezzo a tante, da come si ferma, riflette, cerca. Chi ha un grande palato non ha fretta, non cerca solo il piacere: cerca il senso.
L’arte gioca un ruolo essenziale nella sua vita. Opere ovunque, collezione straordinariamente ricca e variegata, amicizie con il jet set dell’arte contemporanea.
L’arte per me è un modo di stare al mondo. Non è ornamento, non è estetica fine a se stessa. È uno specchio, ma anche una visione. È il luogo dove nascono le domande più urgenti. Le opere che scegliamo, la nostra collezione – così variegata e viva – non è frutto di un gusto, ma di una necessità: vivere in dialogo costante con qualcosa che ci spinga oltre, che ci scuota, che ci permetta di interrogarci costantemente, che renda visibile l’invisibile. Le amicizie che ho costruito nel mondo dell’arte contemporanea non sono fatte di mondanità, ma di ascolto. Penso al mio grande amico intellettuale Carlo Benvenuto o alla forza creativa di Jr. Sono scambi con chi, come me, crede che la bellezza abbia una funzione sociale, che il gesto creativo possa curare, risvegliare, unire. Cucinare dopo aver vissuto tutto questo è inevitabilmente diverso: non preparo solo piatti, cerco di creare esperienze che siano atti di partecipazione. Segni vivi. Piccoli semi piantati nel cuore di chi assaggia.
Quanto la ispira tutto questo?
L’arte ci ispira ogni giorno, perché ci mette in contatto con la parte più fragile e insieme più potente dell’essere umano: la capacità di trasformare. Joseph Beuys è una guida silenziosa nel nostro percorso. La sua idea che ‘la rivoluzione siamo noi’ ci accompagna come un mantra. Non io. Non voi. Ma tutti insieme. Questo è anche il cuore del nostro modo di cucinare. Non esiste piatto che abbia senso se non genera un incontro, se non costruisce un ponte, se non porta con sé un seme di qualcosa di più grande. E proprio come diceva Beuys, ‘we should never stop planting’. Dobbiamo continuare a piantare, condividere, seminare speranza, idee, possibilità. In cucina come nella vita. Ogni ingrediente, ogni sapore, è un seme: può diventare gesto politico, atto poetico, invito alla cura.
Il suo percorso è sempre stato attento alla sostenibilità.
Sostenibilità è una parola che oggi si usa molto, ma che spesso viene svuotata del suo vero significato. Per me, invece, è una parola densa, necessaria, viva. Non è solo una questione ecologica o ambientale, è una responsabilità verso tutto ciò che ci circonda: persone, luoghi, gesti, memoria. La sostenibilità che mi interessa è prima di tutto umana. È valorizzare il talento e porlo al centro del progetto senza distinzioni. Significa prendersi cura delle relazioni. Degli spazi di lavoro. Dei ritmi. Dei sogni.
Che cosa significa per lei questa parola?
Significa creare un ambiente dove chi cucina, chi serve, chi pulisce, chi coltiva, si senta visto, ascoltato, rispettato. Perché non possiamo parlare di sostenibilità se, dietro un piatto perfetto, ci sono mani stanche, vite sfruttate, silenzi imposti. Sostenibilità è anche lasciare spazio al tempo. Alla lentezza quando serve. Alla qualità che nasce dall’ascolto profondo delle stagioni, della terra, dei bisogni veri. È scegliere materie prime che rispettano il ciclo della natura, sì. Ma anche persone, produttori, artigiani che condividono una visione etica del lavoro, non solo commerciale. È non sprecare, ma non solo il cibo: anche il talento, l’energia, il potenziale umano. Per me la cucina sostenibile è quella che rigenera, non solo che evita il danno. Che costruisce futuro. Che lascia un’eredità fatta di gesti giusti, di rispetto, di semi piantati nel terreno della consapevolezza. Cucinare così non è facile. Richiede coraggio. Ma è l’unica strada che sento davvero mia. E anche la più bella, perché è fatta di cura. È miseria e nobiltà.
Qual è il ruolo sociale di un cuoco?
Una volta raggiunta la vetta, il dovere morale è restituire. Non per altruismo astratto, ma perché non siamo arrivati da soli. La strada verso l’alto è piena di incontri, mani tese, occasioni ricevute. E quando hai avuto il privilegio di costruire un ristorante che funziona, una visione che viene ascoltata, devi usarla per generare valore anche fuori da te. Per me un ristorante non è solo un luogo dove si mangia bene. È una bottega rinascimentale: un laboratorio di idee, di bellezza, di formazione. È un luogo di cultura, di trasmissione, di scambio. Siamo ambasciatori della nostra agricoltura, dei territori, delle storie che stanno dietro a ogni ingrediente. Siamo attrazione turistica, certo, ma anche presidi di pensiero. E oggi, più che mai, possiamo essere anche esempi sociali.
Ha fondato la società no profit Food for Soul, ha progettato e realizzato refettori in tutto il mondo con attenzione al sociale, con sua moglie Lara Gilmore ha creato il Tortellante, che promuove la diversità come valore. Ci vuole parlare di queste realtà?
Con Food for Soul abbiamo voluto dare forma a questo pensiero: creare refettori in tutto il mondo non solo per combattere lo spreco alimentare, ma per restituire dignità attraverso il cibo. È un gesto semplice, ma potente. Non si tratta solo di nutrire lo stomaco, ma l’anima. E con Tortellante, insieme a Lara, abbiamo voluto mostrare come la diversità non sia un limite, ma una risorsa. In quel laboratorio, dove ragazzi nello spettro autistico preparano a mano tortellini secondo la tradizione modenese, si custodisce qualcosa di profondamente umano: la possibilità per ognuno di trovare un posto, un senso, un ruolo. Il sociale non è un’azione parallela alla cucina. È la cucina che si apre. Che abbraccia. Che restituisce. Il ruolo sociale di un cuoco oggi è immenso: educare, includere, connettere. Non basta più fare un buon piatto. Serve creare contesto, generare impatto. Per me cucinare è un atto politico, culturale, umano.
Oggi, con la candidatura della cucina italiana a patrimonio culturale immateriale dell’Unesco, come si sente di definirla?
Quando penso alla candidatura della cucina italiana come patrimonio culturale immateriale dell’Unesco, sento che è giusto, ma anche necessario. La nostra cucina è fatta di memoria e di futuro, di mani e di racconti. È un patrimonio che non sta nei musei, ma nei gesti quotidiani delle nonne, nei campi, nelle botteghe, nelle famiglie.
E a coloro che dicono che la cucina italiana non esiste come unicum, che cosa risponde?
Rispondo che è proprio questa la sua forza: non è una sola voce, ma un coro. Ne abbiamo parlato parecchio e in modo molto approfondito con la direttrice della rivista La Cucina Italiana, Maddalena Fossati, l’ideatrice e prima promotrice della candidatura a Patrimonio Unesco. È un mosaico di tradizioni, dialetti, variazioni. Ma sotto questa molteplicità, c’è un’identità comune: la cultura dell’accoglienza, del rispetto per la materia, del tempo dedicato, della tavola come luogo di comunità. La cucina italiana esiste eccome. Non come rigida definizione, ma come spirito. Come arte del vivere. È un rito collettivo.
Il ruolo di un uomo e di un cuoco non è solo quello di cucinare, ma anche e soprattutto di rendere grande e importante un’impresa economica che genera lavoro e progresso per tante famiglie e tanti individui.
Il ruolo di un cuoco, oggi, non si ferma certo ai fornelli. È un ruolo complesso, stratificato, profondamente umano. È quello di guida, di custode, di costruttore. Un cuoco è anche un imprenditore culturale e sociale: ha il compito di far crescere un’impresa che non generi solo eccellenza, ma anche valore umano. E questo valore si misura in persone, in famiglie, in possibilità. Ogni volta che apriamo una porta, accendiamo una luce, mettiamo un piatto in tavola, ci sono decine, centinaia di persone che hanno contribuito a quel momento.
Quanti sono i ‘Bottura Boys’ e cosa cerca di trasmettere loro nel suo percorso di vita personale e professionale ?
I Bottura Boys – come affettuosamente li chiamano – sono ormai decine di premiati con almeno una stella Michelin, ma anche centinaia che credono nella nostra ‘famiglia’. Non sono solo chef o camerieri. Sono panettieri, contadini, manager, sommelier, stagisti, artisti, visionari. Sono ragazze e ragazzi che hanno creduto in un sogno e lo hanno reso realtà con il loro lavoro quotidiano. Alcuni sono cresciuti con me per più di 20 anni, altri sono appena entrati, ma a tutti cerco di trasmettere la stessa cosa: non accontentarsi mai. Trasmetto l’importanza del dubbio, della curiosità, della cultura. Ma anche l’etica del lavoro ben fatto, il rispetto per ogni gesto, e soprattutto la bellezza di sentirsi parte di qualcosa di più grande. Cerco di insegnare che non esiste eccellenza senza umiltà. Che il talento va coltivato con la disciplina e che la vera leadership non si impone: si dona. Nella mia vita personale e professionale ho imparato che la vera grandezza non sta nell’essere al centro, ma nel saper creare spazio intorno a sé perché gli altri possano fiorire. Il mio orgoglio più grande non è solo quello che ho costruito, ma quello che abbiamo costruito insieme. Una comunità che si sostiene, che cresce, che guarda avanti. E se oggi il nostro lavoro genera progresso, è perché parte da un’idea semplice: la cucina può cambiare il mondo, se è fatta con amore, intelligenza e condivisione. Cucinare è sempre un gesto d’amore.
Si sente arrivato?
No, mai. E spero di non sentirmi mai così. Perché l’arrivo, per me, è una parola che sa di fermata. E io, invece, ho bisogno di futuro, di scoperta, di inquietudine creativa. Ogni traguardo che raggiungiamo è solo una nuova soglia da attraversare, un nuovo orizzonte che si apre. La cucina, l’arte, il sociale… tutto è in continua evoluzione. E io voglio restare in ascolto, restare curioso, restare vivo. La prossima sfida è sempre quella di andare più a fondo. Di lasciare tracce che non siano solo piatti belli, ma idee che durano, gesti che si propagano.
Qual è la prossima sfida?
Voglio continuare a costruire progetti dove la cucina diventa linguaggio universale per parlare di bellezza, di dignità, di rinascita. Voglio che Food for Soul cresca, che i refettori si moltiplichino, che il Tortellante ispiri altri luoghi, altre famiglie, altre storie. E poi c’è la sfida più grande: custodire il fuoco della passione, continuare a creare, a sbagliare, a mettermi in gioco. Continuare a essere un allievo, anche dopo 40 anni di mestiere. Forse è questa la mia vera avventura: restare fedele alla mia visione, ma mai prigioniero di essa. Restare aperto, generoso, imperfetto. Il viaggio non è finito. E finché avrò un’idea da realizzare, una storia da raccontare, un piatto da offrire con il cuore… io non mi sentirò mai arrivato. Nel mio futuro ci sarà sempre futuro.
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L’articolo L’Osteria Francescana, l’arte contemporanea e il ruolo sociale dello chef: Massimo Bottura si racconta è tratto da Forbes Italia.