1 Agosto 2025

Israele tra crisi e isolamento internazionale: perché il sostegno americano non basta più

Israele è sempre più isolato sul piano internazionale. Il presidente francese Emmanuel Macron ha annunciato che la Francia riconoscerà ufficialmente lo Stato di Palestina a partire da settembre, innescando una reazione a catena. Pochi giorni dopo, il primo ministro britannico Keir Starmer ha dichiarato che anche il Regno Unito è pronto a compiere lo stesso passo, a meno che Israele non accetti di porre fine al conflitto. Nella stessa direzione si è mosso il primo ministro canadese Mark Carney, che ha annunciato l’intenzione del suo governo di riconoscere lo Stato di Palestina durante l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, prevista per settembre 2025.

La reazione di Donald Trump non si è fatta attendere. “Wow! Il Canada ha appena annunciato il suo sostegno alla costituzione di uno Stato palestinese. Questo renderà molto difficile per noi concludere un accordo commerciale con loro. Oh Canada!!!”, ha scritto il presidente su Truth Social.

Ancora non è chiaro come questi riconoscimenti incideranno sulla guerra in corso, ma sono la conferma che Israele, pur mantenendo una netta superiorità militare, sta perdendo la guerra sul piano politico e diplomatico. Il Paese è sempre più isolato sulla scena internazionale, nonostante il sostegno degli Stati Uniti, e continua a perdere consenso, anche a causa dell’alto numero di vittime civili a Gaza: secondo le stime, sarebbero oltre 50mila i morti dal 7 ottobre.

L’economia israeliana

Anche l’economia del Paese è sotto pressione. Da una parte, le spese militari – che la Banca d’Israele stima tra i 55,6 e i 67 miliardi di dollari, includendo anche i costi per la ricostruzione post-conflitto – pesano in modo significativo. Dall’altro, settori strategici come il turismo, in crisi non solo in Israele ma in tutto il Medio Oriente, hanno subito un brusco arresto, rallentando la ripresa economica.

A risentire della situazione sono anche le attività portuali di Israele. Prima del 7 ottobre, i porti di Ashdod, Haifa ed Eilat rappresentavano il centro del commercio estero del Paese. Oggi, il porto di Eilat – unico sbocco israeliano al Mar Rosso – ha dichiarato bancarotta, a causa del crollo quasi totale dei traffici commerciali a causa degli attacchi degli Houthi nel tratto meridionale del Mar Rosso. Anche Ashdod opera in modalità emergenza, mentre Haifa, seppur ancora attivo, è sotto pressione per l’aumento dei costi.

A complicare il quadro economico c’è l’emigrazione di un gran numero di israeliani. Secondo i dati elaborati dall’Israel Central Bureau of Statistics (CBS), pubblicati dall’agenzia stampa israeliana Ynet News: “Nell’anno appena trascorso il saldo tra il numero di individui che si sono trasferiti in Israele e quelli che invece sono emigrati è negativo e riflette un calo di 18mila persone”. Questo, oltre a contrastare il concetto di Aliyah (il ritorno degli ebrei della diaspora in Israele), pesa sull’economia, riduce la forza lavoro, abbassa i consumi interni e le entrate fiscali, limita la crescita economica e gli investimenti e incide sul futuro demografico del Paese.

Il sostegno degli Stati Uniti

L’economia di Israele dipende in larga misura dal sostegno degli Stati Uniti, fattore emerso chiaramente durante il conflitto con l’Iran. L’intervento statunitense ha infatti evitato a Israele una guerra di logoramento, che avrebbe compromesso ulteriormente la sua economia. Con l’operazione Rising Lion (Leone nascente) — nome ispirato a un versetto biblico che simboleggia la forza di Israele contro la minaccia iraniana — Israele ha colpito l’Iran, attaccando oltre 100 obiettivi, tra strutture nucleari e centri di comando militare.

Ma la risposta di Teheran è stata più forte del previsto. Quella che Netanyahu aveva definito un’azione lampo per neutralizzare il programma nucleare iraniano si è trasformata in un conflitto ben più complesso, che Israele non poteva permettersi. Così, nella notte del 22 giugno, gli Stati Uniti sono intervenuti con l’operazione Midnight Hammer (Martello di mezzanotte), colpendo tre siti nucleari iraniani strategici: Fordow, Natanz ed Esfahan.

Perché gli Stati Uniti sostengono Israele

Gli Stati Uniti sostengono Israele per una serie di ragioni politiche, ma anche culturali. Israele è innanzitutto il principale alleato degli Usa in Medio Oriente, regione caratterizzata da instabilità e conflitti. Attraverso Israele, gli Stati Uniti riescono a mantenere un’influenza nella zona e tenere sotto controllo potenze come l’Iran, la cui espansione nucleare rappresenterebbe una minaccia per la sicurezza. In generale, attraverso Israele gli Stati Uniti vogliono mantenere un equilibrio in Medio Oriente. Inoltre, c’è un legame culturale tra le due potenze: la comunità ebraica ha un forte peso nella politica interna statunitense.

L’articolo Israele tra crisi e isolamento internazionale: perché il sostegno americano non basta più è tratto da Forbes Italia.