Articolo tratto dal numero di maggio 2025 di Forbes Italia. Abbonati!
Visionario, controverso, tenace. Alfredo Romeo è una figura che sfugge alle definizioni semplici. Avvocato, imprenditore, innovatore industriale, ma anche collezionista d’arte, promotore di bellezza e interprete profondo dello spirito delle città italiane. In questa lunga intervista a Forbes Italia – che attraversa 40 anni di storia urbana, innovazione tecnologica, vicende giudiziarie e visioni estetiche – Romeo si racconta con libertà e profondità. Un’intervista che è, in fondo, anche una dichiarazione d’amore per Napoli, per l’Italia e per l’idea che l’impresa possa – e debba – essere un motore di civiltà.
Avvocato Romeo, io partirei da Napoli per cominciare il racconto delle sue esperienze imprenditoriali.
Sì, non possiamo che partire da Napoli, la città che mi ha formato, dove sono cresciuto e ho fatto i primi passi da imprenditore negli anni Settanta dello scorso secolo. Con Napoli ho ancora oggi un rapporto viscerale, e non potrebbe essere altrimenti. La città è la mia origine e la mia ferita. So quanto può dare e quanto può distruggerti. Ma resta, per me, il laboratorio del futuro. In ogni mio progetto c’è una parte di Napoli: la sua complessità, la sua bellezza imperfetta, il suo disordine fertile. È una città che non si lascia mai spiegare del tutto, ma che ti costringe a guardare oltre. Io ci torno sempre, anche solo per passeggiare nei vicoli dei Quartieri Spagnoli, dove ho imparato a osservare il mondo.
Ma quando iniziò le sue attività, negli anni ‘70 dello scorso secolo, quali erano le condizioni della città?
Erano momenti difficili. Ma vidi un’opportunità. Avevo una piccola società immobiliare, ma pensai che bisognava intervenire sul patrimonio edilizio in modo nuovo, offrendo ai miei interlocutori una visione organica, sistemica del concetto stesso di patrimonio edilizio. Così fondai, nel 1981, Romeo Gestioni, proprio con l’obiettivo di proporre un approccio industriale e integrato della gestione degli immobili pubblici. All’epoca, il patrimonio sia pubblico che privato era trattato in modo frammentato e inefficiente: interventi episodici, nessuna visione d’insieme, competenze distribuite senza coordinamento. Io pensavo che servisse un metodo, e iniziai a costruirlo.
Qual era la filosofia di Romeo Gestioni?
Semplice: applicare un approccio sistemico alla gestione del patrimonio. Ma fu una rivoluzione culturale. Fummo i primi a introdurre in Italia il concetto di global service, integrando più funzioni in un unico contratto. Cominciammo a parlare di performance, di tracciabilità, di standard industriali nella gestione pubblica. Ricordo benissimo il primo contratto con il Comune di Napoli. Non fu una semplice gara vinta: fu l’inizio di un nuovo paradigma. Fino ad allora ogni intervento – pulizia, riscaldamento, vigilanza, manutenzione – veniva gestito con appalti separati e, soprattutto, non aveva alcuna redditività. Noi proponemmo un unico soggetto responsabile, un cruscotto digitale per il monitoraggio, indicatori di qualità. Nessuno ci credeva. Poi arrivarono i risultati: la morosità degli inquilini calò drasticamente, gli interventi venivano monitorati in tempo reale, gli edifici cominciarono a vivere una nuova stagione. Per la prima volta la gestione diventò uno strumento di politica pubblica capace di generare nuova ricchezza.
Ma come nacque l’intuizione di un approccio industriale alla gestione immobiliare?
Dal mio sguardo sulle procedure e sui processi, sono quelli che determinano l’andamento delle cose. Ho sempre cercato di smontare e rimontare le cose, per capire dove si sprecano risorse, energie. Ho lavorato molto sui flussi, sulla modellizzazione degli scenari. E ho studiato tanto. Ho guardato cosa succedeva all’estero. In Inghilterra, ad esempio, già negli anni Settanta si parlava di property management come funzione strategica per lo Stato. In Germania il concetto di Betriebsführung – conduzione integrata – era già ben sviluppato. In Italia, invece, il patrimonio pubblico era considerato un’eredità da custodire passivamente. Noi invece abbiamo costruito un metodo, basato sulla trasparenza e sull’efficienza. Abbiamo introdotto i primi software gestionali per la manutenzione programmata, il controllo dei costi, la geolocalizzazione degli interventi. Abbiamo messo a punto una piattaforma che oggi, a distanza di decenni, è ancora l’unico vero punto di riferimento nel settore.
Costruendo quindi un monopolio del business?
Assolutamente no. Quando il modello cominciò a farsi strada, ci ponemmo il problema di creare le basi di un mercato concorrenziale, diffondendo e condividendo il nostro know how, avvicinando e promuovendo nuove e piccole realtà imprenditoriali verso questo nuovo e promettente modello di business.
E Napoli è rimasta il suo laboratorio?
Sempre. Napoli è la mia scuola. È una città difficile, ma proprio per questo perfetta per sperimentare. Se qualcosa funziona a Napoli, può funzionare ovunque. Forse è grazie a Napoli, alla sperimentazione del modello in una città ‘estrema’, che siamo poi arrivati a Roma, Firenze, Milano, Venezia, e abbiamo gestito patrimoni immobiliari del valore di centinaia e centinaia di miliardi di euro. Abbiamo lavorato per enti locali, ministeri, grandi istituzioni pubbliche, portando efficienza dove prima c’era dispersione. E lungo il percorso abbiamo anche formato una nuova generazione di professionisti: tecnici, ingegneri, esperti di manutenzione, operatori informatici, architetti. Questo, forse, è uno degli aspetti di cui vado più fiero: aver creato un mestiere dove prima non c’era nulla, aver creato un laboratorio/scuola orientato alle migliori performance.
Poi il passo successivo è stato il facility management. Ma cosa significa?
Significa occuparsi dell’insieme delle attività e dei servizi necessari per gestire, mantenere e migliorare gli edifici, gli impianti e gli spazi di lavoro di un’organizzazione, assicurandone la piena funzionalità, la sicurezza, l’efficienza e la sostenibilità. Insomma essere architetti dell’efficienza invisibile. Il cittadino non lo vede, ma dietro una scuola pulita, un edificio ben mantenuto, un archivio funzionante, c’è un’organizzazione industriale molto complessa. Non è solo manutenzione: è gestione, prevenzione, controllo, innovazione. Significa garantire la funzionalità quotidiana degli spazi pubblici e privati attraverso un modello scientifico, affidabile, replicabile.
La sfida era quindi trasformare il concetto stesso di ‘servizio’?
Esattamente. Volevamo spostare l’attenzione dal ‘fare’ all’organizzazione del fare. Trasformare ogni attività tecnica in un processo ingegnerizzato, misurabile, ottimizzabile. Questo ha richiesto un lavoro enorme sulla cultura interna, ma anche sulla formazione del cliente. Molte amministrazioni pubbliche non erano abituate a ragionare in termini di efficienza, indicatori, Sla (Service level agreement), benchmarking.
Può fare esempi concreti?
Ne potrei fare tanti, uno molto significativo è il progetto mandato avanti con l’Agenzia del Demanio. Ci fu affidata la gestione di migliaia di edifici pubblici distribuiti sul territorio nazionale, per realizzarla al meglio implementammo un sistema di monitoraggio digitale, con rilievi georeferenziati e con l’uso di droni (una delle prime applicazioni di questi strumenti) che consentiva in tempo reale di avere sotto controllo stato del patrimonio e interventi da fare. Era la prima volta che un ente pubblico italiano si dava una mappa viva e dinamica del proprio patrimonio. Altro esempio significativo fu quello relativo alla gestione integrata dei diversi servizi del ministero dell’Economia (parliamo di 220mila metri quadrati di uffici), dalla cui esperienza il ministero prese le mosse per dare vita alla Consip, la società pubblica per gli acquisti centralizzati di beni e servizi. Potrei citarne tanti altri.
Un altro passaggio importante è stata la nascita del progetto Insula…
Lo lanciammo inizialmente nel centro storico di Napoli — uno dei più estesi e complessi d’Europa — per restituire decoro, sicurezza e vivibilità attraverso una gestione coordinata e integrata degli interventi edilizi, dei servizi urbani e della manutenzione del patrimonio pubblico. Il progetto, sviluppato in una logica di partenariato pubblico-privato, era fondato sul principio dell’autosostenibilità economica (in termini di entrate fiscali dedicate, crescita dei valori patrimoniali dei beni e delle attività e costi operativi dei servizi), per favorire il ripristino di un corretto e pieno reciproco rispetto dei diritti/doveri rispettivi tra Pa e residenti/fruitori del territorio. Era una delle prime applicazioni italiane del facility management urbano, con una visione in cui efficienza gestionale e cura del territorio si fondevano in un’idea di ‘città pubblica’ moderna e sostenibile. Insula fu pensato come format replicabile in altre realtà urbane italiane, specie dove degrado e frammentazione amministrativa ostacolano la qualità della vita.
Quanto ha contato l’innovazione tecnologica nel suo percorso?
Tantissimo. È stata ed è l’infrastruttura del metodo. Abbiamo introdotto la digitalizzazione dei flussi prima che fosse di moda. Mappe interattive, georeferenziazione degli interventi, droni, tracciamento dei ticket, manutenzione predittiva. Oggi questo è considerato normale, ma noi abbiamo cominciato negli anni ‘90, quando ancora si lavorava con fax e cartellini.
La pubblica amministrazione ha recepito questo approccio?
Non sempre. A volte ci ha seguiti, a volte ci ha combattuti. Perché innovare in Italia significa spesso disturbare equilibri consolidati. Ma i risultati parlano. I nostri modelli sono stati replicati anche da altri operatori. La gestione integrata è diventata lo standard. Ci siamo scontrati con una burocrazia resistente. Ma, con i risultati, siamo anche riusciti a cambiare il modo di pensare di tanti dirigenti pubblici.
E la politica come ha reagito?
La politica non è un corpo estraneo al Paese: ne vive tutte le contraddizioni e i conservatorismi. In Italia chi lavora nel pubblico è spesso visto con sospetto. Quando cresci, quando sei efficiente, quando vinci bandi importanti, allora diventi ‘sospetto’. Ma io non ho mai chiesto favori. Ho partecipato a gare, le ho vinte con i numeri, non con le relazioni. E questo dà fastidio a un sistema che spesso si basa sull’ambiguità e sulla consuetudine.
Nel 2017 lei fu arrestato nell’ambito di un’indagine sulla Consip. Quanto ha pesato nella sua vita quell’episodio?
Fu un momento spartiacque, doloroso e ingiusto. Tutto cominciò a inizio 2017, quando la Procura di Roma aprì un’indagine su presunte irregolarità negli appalti della centrale di acquisti pubblici Consip. Il mio nome compariva tra quelli di imprenditori, manager pubblici e anche politici di rilievo. Fui arrestato il 1 marzo, con l’accusa di corruzione. Passai diversi mesi nel carcere di Regina Coeli e poi agli arresti domiciliari, in un clima mediatico feroce. Fui definito ‘il corruttore’, ma senza processo, senza contraddittorio. I giornali, per settimane, mi misero al centro di un racconto a senso unico, costruito più per logiche politiche e narrative che per accertamento dei fatti. Nel corso delle indagini sono emerse chiaramente la fragilità del castello accusatorio: intercettazioni fuori contesto, testimonianze contraddittorie, nessuna prova diretta. Già nel 2019 le accuse più gravi vennero ridimensionate. Negli anni successivi si arrivò a vari proscioglimenti e archiviazioni. Nel 2023 il tribunale ha stabilito che “non sussiste alcun fatto penalmente rilevante” a mio carico. È stata una sentenza chiara, netta. Ma il danno era stato fatto: reputazionale, economico, umano. Centinaia di dipendenti si sono trovati sotto pressione. Alcuni contratti pubblici sono stati congelati. Ho dovuto combattere su più fronti, anche per proteggere la mia squadra.
Cosa ha imparato da quel periodo?
Che il confine tra giustizia e giustizialismo è pericolosamente sottile. E che, per quanto tu lavori bene, devi sapere che puoi essere travolto da logiche che non dipendono dalla realtà, ma dalla rappresentazione della realtà. Ma anche che, se hai le spalle larghe e la coscienza a posto, puoi resistere. Io non ho mai pensato di mollare. Mi sono affidato ai miei avvocati, alla mia famiglia, ai miei collaboratori. Ho cercato di trasformare anche quella crisi in occasione di riflessione, di rigenerazione. Oggi quella storia la porto con me, non come ferita, ma come cicatrice guarita. È un monito: non basta essere nel giusto per essere trattati con giustizia. Ma se sei nel giusto, e se non indietreggi, alla fine la verità viene fuori. E puoi continuare a costruire.
È cambiata, da allora, la sua idea di impresa?
No. Semmai è diventata più radicale. Credo ancora di più che l’impresa debba essere un atto civile, un gesto pubblico, anche se opera nel privato. Il mio lavoro ha sempre cercato di connettere efficienza e giustizia, rigore e bellezza. Quella esperienza ha solo rafforzato la mia convinzione che l’imprenditoria debba farsi carico non solo del profitto, ma del destino del Paese.
Lei fa spesso riferimento alla cultura che fa da sfondo alle sue attività. Che cosa significa concretamente?
Io sono nato in un tempo in cui si cresceva leggendo, ascoltando, osservando. La cultura era il punto di partenza e di arrivo di ogni gesto. Ancora oggi, il mio primo gesto ogni mattina è aprire un giornale…
Mi scusi, ma a un certo punto lei i giornali ha cominciato non solo a leggerli, ma a comprarli ed editarli…
La passione c’era da sempre, poi nel 2002 ebbi l’opportunità di entrare con altri amici nella compagine azionaria di un giornale che stava appena nascendo, era il Riformista. Fu una bellissima avventura che ho voluto riprendere nel 2019, acquisendo la testata, dopo che il giornale aveva chiuso, facendolo rinascere. Oggi il Riformista è un autorevole giornale di opinione, garantista e liberale, nella sua totale autonomia riflette molto il mio modo di vedere le cose. Ma insieme edito anche l’Unità, testata storica della sinistra italiana. L’impegno nell’editoria è lo sviluppo di quella fame di cultura che ho sempre avuto. Fame di sapere cosa accade nel mondo, come si muove la storia. Ho sempre avuto una biblioteca viva, piena di testi di filosofia, economia, arte, urbanistica.
Ma cosa fa Alfredo Romeo quando non lavora?
Cammino. Osservo. Leggo. Colleziono idee. A volte scrivo. Una forma di dialogo con me stesso. Viaggio molto, anche solo per vedere un’opera d’arte dal vivo o per soggiornare in un hotel che mi ispira. Ogni viaggio è un’occasione per imparare qualcosa, ma anche per confermare o mettere in crisi ciò che penso.
La bellezza è importante nel suo lavoro?
Fondamentale. La bellezza non è decorazione: è efficienza, equilibrio, misura. Un edificio ben tenuto è bello perché funziona, perché comunica rispetto. Ma c’è anche una bellezza simbolica, che passa attraverso l’arte, i materiali, i gesti. Per questo ho voluto che i miei hotel fossero anche gallerie: perché vivere l’arte significa abitare il tempo in modo diverso.
A proposito di bellezza, il Romeo Hotel di Roma, ultima sua creatura, è stato definito da tanti un’opera d’arte. Lei come lo descriverebbe?
È un progetto di vita. È l’idea che la bellezza possa essere funzionale, che l’arte possa diventare ospitalità e che il lusso non sia solo ostentazione, ma armonia, misura, profondità. Ho voluto che Zaha Hadid progettasse qualcosa che non esisteva prima: un dialogo fluido tra il corpo architettonico, la luce e la memoria del luogo. La bellezza non può essere occasionale: deve diventare struttura, non decoro. E l’architettura, quando è ben fatta, riesce a generare senso anche nel silenzio. Romeo Roma nasce così: come sintesi tra tempo, spazio, linguaggio e visione.
Cosa lo rende unico?
Ogni elemento: dalle 74 camere alle suite affrescate, dalla scala in Krion alla piscina con pavimento trasparente sopra i resti romani. Tutto è stato pensato in dialogo tra antico e contemporaneo. Anche l’arte non è decorazione, ma architettura narrativa: Mimmo Paladino, Mario Schifano, Livia Drusilla, Fontana, Pomodoro. Il Romeo Roma è un esperimento di convivenza tra archeologia e avanguardia. Abbiamo messo in campo l’artigianato italiano, la tecnologia nautica, l’illuminazione teatrale. Tutto pensato per creare uno spazio dove il cliente non sia solo ospite, ma parte di un’esperienza culturale. Il ristorante di Alain Ducasse ne è l’esempio più evidente: lì cucina, design e arte si fondono in un’esperienza immersiva.
Quali sono le differenze tra le diverse location della Romeo Collection?
Ciascun hotel nasce da un’identità precisa. A Napoli, con Kenzo Tange, abbiamo puntato su un dialogo tra il razionalismo nipponico e il fascino industriale del porto: linee nette, materiali forti, una vista sul mare come quinta teatrale. Il Romeo Napoli è una macchina urbana, un cuore pulsante nella città. Roma invece è visione pura. Con Zaha Hadid abbiamo immaginato un palazzo fluido, dove i materiali scolpiscono il vuoto e raccontano il tempo. È un’opera d’arte abitabile. Le geometrie spezzano e ricompongono la linearità classica della città, proponendo una nuova lettura della monumentalità. A Massa Lubrense, con Kengo Kuma, ci muoveremo ancora diversamente: sarà un omaggio alla roccia, alla luce e al paesaggio costiero. Lì l’architettura non emergerà, si fonderà con l’ambiente. Sarà quasi invisibile, ma profondamente evocativa.
L’articolo Innovatore, imprenditore e amante della bellezza: la storia di Alfredo Romeo è tratto da Forbes Italia.