11 Luglio 2025

Greenwashing, l’Europa fa marcia indietro: cosa cambia per imprese e consumatori

L’Europa frena nella lotta contro il greenwashing, cioè la comunicazione green non supportata da un effettivo impegno sul fronte della sostenibilità ambientale. La Commissione Ue ha annunciato l’intenzione di ritirare la proposta di direttiva nota come Green Claims Directive, che avrebbe obbligato le aziende a fornire prove verificate delle dichiarazioni ambientali su prodotti e servizi (ne avevamo parlato qui). Una scelta che ha subito suscitato critiche da parte di altri gruppi politici e Stati membri. Ne abbiamo parlato con Elisa Teti, partner dello studio legale Rucellai & Raffaelli, dipartimento antitrust e consumer protection.

La direttiva Green Claims è stata oggetto, da un anno a questa parte, di una grande attenzione da parte di tutti gli attori coinvolti. Si aspettava un esito simile?

La direttiva Green Claims ha generato un ampio dibattito tra tutti gli stakeholder interessati in considerazione del fatto che questa normativa racchiudeva in sé diversi adempimenti particolarmente dirompenti, uno per tutti la necessaria certificazione preventiva delle asserzioni ambientali. Questo avrebbe comportato per le imprese non solo un impatto economico di rilievo (per via del costo delle certificazioni presso l’ente terzo certificatore), ma anche importanti effetti sui flussi aziendali autorizzativi, sulle procedure e soprattutto sulle tempistiche: in ambito pubblicitario, come ben sappiamo assistendo le imprese day by day in questi ambiti, tutto corre molto veloce non solo in termini di creazione e ideazione, ma anche a livello di autorizzazioni prima della diffusione di una campagna; mi sento quindi di dire che il sistema di certificazioni preventive in cui è necessario fare affidamento sui tempi di risposta dell’ente sarebbe stato molto poco compatibile con le esigenze aziendali.

Detto questo, le aziende erano pronte: già nel momento in cui è stato pubblicato il progetto di Direttiva le imprese si sono attivate per valutare gli impatti della possibile legislazione in arrivo; e anche noi come studio siamo stati chiamati in diverse occasioni a fare training e corsi specifici per i clienti proprio per prepararli in vista dell’arrivo della nuova normativa: ricordo che già a fine 2021 ho tenuto uno dei primi webinar sul tema che mi è stato chiesto da Confindustria, a cui hanno fatto poi seguito diversi corsi tenuti in imprese e altre associazioni di categoria.

A suo avviso questo blocco porterà svantaggi per le imprese o per i consumatori?

In tutta onestà non vedo svantaggi dal blocco della direttiva Green Claims, considerato che la lotta al greenwashing, assolutamente dovuta e necessaria non solo a tutela del consumatore, ma anche di tutte quelle imprese, assai numerose, che operano lealmente sul mercato, è già oggi possibile grazie all’impianto normativo in essere e a quello in divenire. Vi è da considerare, infatti, che la nostra Autorità Garante della Concorrenza del Mercato (Agcm) che, come sappiamo, è particolarmente attiva in ambito di consumer protection, già tutela i consumatori nei confronti del cosiddetto greenwashing come violazione del Codice del Consumo in tema di pratiche commerciali scorrette e che il primo caso di intervento dell’Autorità in questo ambito risale addirittura nel 2009.

È poi già entrata in vigore la direttiva 825 del 2024 che, una volta implementata nel Codice del Consumo, andrà a disciplinare le condotte delle imprese e prevede diversi obblighi informativi a loro carico in ambito di durabilità dei prodotti e di asserzioni ambientali, andando così a codificare una prassi di tutela già in atto da tempo. Grazie a questa direttiva, nel nostro codice del consumo confluiranno una serie di condotte scorrette all’interno della cosiddetta black list, ossia azioni o omissioni che sono a tutti gli effetti considerate illegittime di per sé. Anche se, a prima vista, questo può sembrare un intervento a detrimento delle imprese, in realtà a mio avviso ha il grosso vantaggio di chiarire già nella norma le condotte vietate a beneficio della certezza del diritto che è un’esigenza sempre più sentita da parte delle aziende.

Non dimentichiamo, poi, che in ambito privatistico gioca un ruolo importante a censura di condotte illegittime di greenwashing anche il Giurì dell’Autodisciplina Pubblicitaria con interventi volti ad azionare una norma ad hoc contenuta nel Codice della Comunicazione Commerciale.

Quali potranno essere le eventuali misure alternative, per non rendere del tutto vano il percorso fatto finora?

Le misure alternative, come dicevo, già esistono e sono da ritenersi efficaci: sono già incluse nella prassi applicativa, soprattutto dell’Autorità Garante, e nella legislazione anche in divenire. I consumatori, quindi, sono già nei fatti tutelati e le imprese, d’altro canto, sono sempre più attente alla compliance anche in ambito consumeristico per evitare che gli investimenti in ambito di sostenibilità e gli sforzi comunicativi non vengano inficiati da pronunce negative di greenwashing che costituiscono un pericolosissimo boomerang in termini di danno di immagine, come anche diversi recenti casi ci hanno insegnato.

Anzi, adempimenti ed obblighi onerosi e stringenti per le imprese ulteriori rispetto a quelli esistenti rischierebbero di ingessare l’attività delle imprese e innescare il fenomeno del greenhushing, ossia il ‘silenzio verde’ dietro il quale si celano quelle aziende che, pur investendo molto in sostenibilità, preferiscono non comunicarla proprio per evitare di incorrere in rischi di violazione normativa e di pregiudizi reputazionali conseguenti.

L’articolo Greenwashing, l’Europa fa marcia indietro: cosa cambia per imprese e consumatori è tratto da Forbes Italia.