Articolo tratto dal numero di giugno 2025 di Forbes Italia. Abbonati!
Nel 2024 i data center mondiali hanno assorbito 415 terawattora di energia, scrive Nature: l’1,5% del consumo mondiale. È una quantità che aumenterà senza sosta, mentre progredirà e diventerà sempre più diffuso l’utilizzo dell’intelligenza artificiale con le sue dispendiose capacità di calcolo. Si stima che nel 2030 il fabbisogno sarà addirittura il doppio. Nel frattempo, lo spazio comincia a diventare l’ambiente ideale per trasferire in orbita attività il cui costo energetico potrebbe diventare un problema.
Non si tratta più di fantascienza: l’accresciuta capacità di accesso allo spazio permette la creazione di avamposti sui quali installare, insieme con strumenti di osservazione, posizionamento e comunicazione (le principali attività che si conducono fuori dall’atmosfera), dispositivi di calcolo e archiviazione necessari anche per snellire le operazioni per cui gli stessi satelliti sono stati costruiti. Con molti vantaggi.
Il cloud computing in orbita
Ad aprile due società di punta della space economy italiana, D-Orbit e Planetek Group, hanno annunciato una business combination (di fatto un’acquisizione del 100% delle azioni di Planetek da parte di D-Orbit) per il cloud computing orbitale. In quell’occasione, durante l’evento al ministero delle Imprese e del made in Italy, Simonetta Di Pippo, astrofisica, esperta di space economy e presidente del consiglio di amministrazione di D-Orbit, ha sintetizzato così ciò che sta accadendo: “È una rivoluzione silenziosa ma profonda: per anni i dati hanno viaggiato dallo spazio alla Terra. Ora portiamo potenza in orbita, lì dove i dati nascono”. Ha parlato di “distributed space”, cioè della possibilità di “trasformare lo spazio da risorsa concentrata a rete distribuita”, sottolineando come tutto questo sia prezioso per le sfide globali che ci attendono, tra cui cambiamento climatico, sicurezza alimentare e delle risorse.
L’idea è di unire e integrare le competenze di D-Orbit, azienda di logistica orbitale, e quelle di Planetek, che da 30 anni si occupa di osservazione della Terra, software di analisi e calcolo sui dati geospaziali. Secondo Luca Rossettini, cofondatore e amministratore delegato di D-Orbit, “il cloud computing in orbita è il futuro del settore spaziale”.
Una costellazione che sfrutta l’IA
È a questo punto lecito immaginare una costellazione di satelliti che acquisisce informazioni (per esempio immagini ottiche, radar o infrarosse) mentre sorvola un territorio e, in collegamento via laser con altri satelliti, sfrutta l’intelligenza artificiale e la capacità di calcolo distribuita nella rete per elaborare e trasmettere a terra il dato già confezionato. Con addirittura la capacità di inviare un segnale di allarme per un’emergenza. Non a caso Rossettini cita, tra le applicazioni, quelle per la Protezione civile: “Per conto dell’Agenzia spaziale europea, abbiamo simulato una situazione di emergenza. Siamo riusciti a trasmettere l’informazione in pochi minuti, con una riduzione del 96% del tempo”.
Il sistema comprenderà, fra l’altro, il cosiddetto edge computing, cioè l’elaborazione del dato direttamente dove è stato generato: il satellite sarà in grado di scartare informazioni ridondanti o inutili (una foto con copertura nuvolosa, per esempio). D-Orbit lo ha già messo in pratica nel 2024 a bordo dei propri satelliti Ion. È una capacità in grado di ridurre la quantità di dati da spedire, la latenza, il tempo e i costi per le operazioni di elaborazione al suolo.
Una volta operativi, inseriti sulla propria orbita e connessi con gli altri nodi della rete, i satelliti si manterranno da sé. Hanno pannelli solari con i quali producono l’energia di cui hanno bisogno e sistemi di raffreddamento che sfruttano lo spazio per disperdere il calore in eccesso. Tutte operazioni che, sulla Terra, vengono effettuate da data center, cloud e centri di calcolo con costi ambientali ormai spaventosi. Si chiama Isru, in situ resource utilization, autosufficienza. E i progetti sono molteplici.
Il ruolo dell’Italia
L’anno scorso uno studio condotto da Thales Alenia Space per la Commissione europea, Ascend (Advanced space cloud for european net zero emission and data sovereignty), ha verificato la fattibilità dell’installazione di data center in orbita. La sfida, si è concluso, è alla portata. E l’Italia, ormai non è un mistero, si candida a leader in questa tecnologia, almeno in Europa.
D-Orbit ha lavorato anche con SkyServe per portare in orbita l’edge computing. Ma in pista ci sono anche giganti come Leonardo, con un progetto dedicato alla Difesa. Military space cloud architecture intende fare dello spazio un’estensione della capacità di calcolo terrestre. In sostanza, significherà installare parte del supercomputer di Leonardo, il Davinci-1, su un satellite. Oltre 100 terabyte di capacità ed elaborazioni ad alte prestazioni per fornire alle forze armate dati strategici e informazioni in tempo reale.
Jeff Bezos e gli altri
Blue Origin, del fondatore di Amazon Jeff Bezos, ha di recente testato il suo nuovo, potente razzo, il New Glenn, che ha rilasciato in orbita il prototipo di un nuovo veicolo, il Blue Ring. È una sorta di carro attrezzi spaziale per in-orbit servicing, manutenzione, rilascio e spostamento di altri satelliti, con capacità di edge computing. Si integrerà alla rete di comunicazione targata Amazon, Kuiper, con Amazon web services. Ci sta pensando anche la texana Axiom, che in futuro potrebbe usare la propria stazione orbitante privata come data center. Voyager Technologies, con a capo un altro visionario, Dylan Taylor, sta esplorando questa opzione attraverso LeoLab, società che progetta il cloud computing orbitale. Da posizionare sulla sua Starlab, un’altra futura stazione spaziale privata.
Lonestar Data Holdings propone invece un particolare tipo di servizio basato su queste architetture: si chiama Disaster recovery as a service, un backup per recuperare dati persi, che erano però archiviati in un luogo sicuro. In questo caso: in orbita attorno alla Luna. Come Astolfo che volò sul suolo selenico per recuperare il senno perduto di Orlando, ma senza Ippogrifo. Salvo non intenderlo digitale.
L’articolo Ecco chi vuole portare i data center nello spazio. C’è anche un progetto italiano è tratto da Forbes Italia.